Che mi rimaneva ora; non più un amico: il mio Luca da stringere e abbracciare in questa giornata fredda, non più lui non altro che il mio ricordo a confortarmi, quello di quei primi giorni d’agosto mentre mi masturbavo con la nostalgia nel cuore, pensando a quei giorni, nel tempo così vicino, ma nell’animo così lontani:
a dir il vero all’inizio non c’era proprio lui, anzi neanche lo conoscevo, neppure sospettavo la sua esistenza, in quel caldo agosto del 2003, ancora mare con gli amici di sempre e la famiglia, nella solita amena località romagnola: non troppo giovanile per le famiglie che ancora vogliono tenere i figli sotto l’ala protettiva e non troppo vecchia per i ragazzi da potersi lamentare per la noia. Un gruppetto ben sortito il nostro; ci conoscevamo da anni e io ero il più grande, tutti gli altri di 14 e 15 anni: due inseparabili cugini e altri due amici della loro medesima età; ultimamente organizzavamo pure le vacanze per coincidere arrivi e partenze: nessuno voleva arrivare dopo gli altri, per non perdersi quei momenti che poi immancabilmente rimpiangi, e nemmeno partivi dopo, per non trovarsi nel tedio di una melanconica nostalgia e struggersi al ricordo di ciò che forse non tornerà più. Quell’anno, però, gli impegni di mio padre ce l’impedirono, solo a me non a loro, e gli ultimi giorni li avrei passati da solo con lui in agosto; non volevo: che ci fa un sedicenne, senza amici, da solo con papa… ancora non immaginavo quanto fu propizio quell'imprevisto.
I giorni passarono felici, tentando di godermeli il più possibile prima della settimana di solitudine che poi m’attendeva, e poi quest’anno, finalmente, Robertino, lo scocciatore per antonomasia, non sarebbe venuto. Perché se noi cinque eravamo il gruppo, capitava sempre, malauguratamente, che un tredicenne, Robertino per l’appunto, giungesse sempre dopo di noi, e per il solito fatto che non dovevamo escludere nessuno, e che i suoi genitori era amici dei nostri, dovevamo sobbarcarcelo. Non l’odiavamo per partito preso, ma perché era insopportabile: insomma, era più piccolo di noi, e già questo c’era d’impiccio, poi col fatto che giungeva sempre quando noi eravamo già tutti riaffratellati e che si sentisse escluso per quello che noi avevamo fatto in sua assenza, faceva scattare, per la sua spiccata indole da moccioso, dispetti e ripicche, e la sua presenta era soltanto foriera di guai e litigi. Inoltre fra noi due c’era una spontanea antipatia, non so perché: forse perché essendo io il più grande, ero per lui automaticamente anche il capo del gruppo e quindi mia era pure la colpa del suo collettivo ostracismo; insomma fatto sta che io ero, per la sua solita immunità dovuta alla minore
età, il suo bersaglio preferito, e avendo io un carattere piuttosto reattivo, tra noi due era sempre baruffa continua, tanto che, per sbeffeggiarci, ci chiamavano “I Fratellini” Tutt’era perfetto: il mare, il sole, l’estate, quando, per l’infelicità di tutti, una bella mattina ci vedemmo arrivare in contro il piccolo scocciatore col suo ghigno beffardo stampato sul muso. Sull’istante gli avrei dato un grattone sul grugno, per che fui io il primo che guardò col suo sorrisetto bastardo, ma tutti gli corsero in contro, più falsi che mai, a dirgli quanto c’era mancato e perché non fosse venuto prima; c’era qualcosa di diverso però il lui rispetto l’anno scorso, non tanto nell’atteggiamento, antipatico come sempre, ma fisicamente: aveva compiuto 13 anni, da 5 mesi, penso, e si era sviluppato; non sembrava più un bimbetto, doveva pure lui aver raggiunto la pubertà e già mi sembrava più simile a noi. Robertino era moro e, notai, per la prima volta, con due profonde iridi castane, il viso pulito e dolce, ancora da impube, difatti era bassino - per quel motivo usavamo il diminutivo - e asciutto, non secco, ma robusto, con gli addominali ben abbozzati. Tutto sommato aveva un discreto fisichino, per essere uno che non fa sport, ma gioca soltanto a calcetto nei campi dell’oratorio, e sarebbe anche stato la mascotte del gruppo, se non avesse avuto sempre quell’atteggiamento da smorfioso impertinente, che fra l’altro me lo faceva assomigliare, certe volte, nel suo modo di sorridere a un personaggio della tv: Hobie, il figlio di Mitch, nel serial TV di BayWatch, che già l’anno scorso mi rammentava.
Aveva finalmente abbandonato quei ridicoli costumini da bimbetto, per indossare i boxer come tutti noi, anche se presto lo ribattezzammo il “boxer indecente”. L’indecenza di quel costume non stava tanto nella sua fosforescenza, quanto nel suo divenir trasparente a contatto con l’acqua; sebben non fosse bianco ma giallo, gli era così attillato, così affusolato al suo giovane corpo da lasciar intravedere tutto, e presto compresi per ch’ebbe cambiato abitudini vestiarie: godeva a ben vedere di buona mercanzia! Eravamo straniti dal suo costume, nessuno aveva il coraggio di farglielo notare; anche perché, pensavamo, che lo sapesse già e che lo indossava apposta per essere al centro dell’attenzione: si tuffava troppe volte, infatti, per prendere la palla e poi riemergere mettendo tutto in bella mostra, per non esserne consapevole; era certamente un comportamento infantile, ma degno di lui.
Ben presto la sua smania di protagonismo e quel costume divennero il miglior modo per prenderlo in giro a sua insaputa: mai così tante volte, infatti, andammo in acqua a giocare a palla… ogni scusa era buona, e poi mi divertivo troppo a tirargliela lontano, apposta, per che per raccoglierla dovesse tuffarsi. Tutto sommato il suo nuovo aspetto, il poterlo prendere in giro, me lo resero meno antipatico, e poi aveva trovato nuovi modi per attirare l’attenzione, alcuni anche divertenti; ricordo quando lo beccai intento a fissare quella quarantenne in topless: “Poverino!...” pensai “…ma com’è messo!”, per poi vederlo avvicinarsi ridendo – Oh, guarda qua! - disse compiaciuto della sua erezione - Ma che schifo! Metti via quel coso…- rispose l’altro. M’impressionò la stranezza del suo gonfiore, sembrava avervi nascono una maniglia di soppiatto, da come deviava lateralmente; fossimo stati soli, non l’avrei cacciato via, avrei quasi avuto l’impulso di prenderla…
Sfortunatamente dopo quell’episodio di goliardica esibizione, non sembrava aver più voglia di replicare lo show, lasciandomi così nel dubbio amletico sull’entità della sua dotazione; la “maniglia” mi aveva impressionato, ma il boxer inganna e per me non era ancora alla mia altezza, se solo l’avesse rifatto in acqua... avrei fugato ogni dubbio. Il cruccio m’attanagliava e lui non si riproponeva: così escogitai un sistema per che fosse lui a svelarmi il suo segreto, al contempo, senza fargli notare un mio interessamento: capitava sempre, infatti, che prima di risalire tutti andassero a farsi “una bella nuotata al largo”, tranne noi due, più incerti delle nostre capacità natatorie, che restavamo invece a riva in ammollo col materassino; ed era lì che nascevano discorsi che altrimenti non sarebbero mai nati. Sostava da qualche giorno una tatuatrice di tribali all’henné sul bagnasciuga antistante lo stabilimento; così mentre sedevamo sul fondale, l’un di fronte all’altro, col materassino sulle gambe a celar le vergogne, buttai la battuta: - guarda quella dei tatuaggi… pensa andare da lei a farsi fare un tatuaggio sull’uccello! -
- Sì, magari un bel biscione! - replicò con un sorriso, sottintendendo quel -one rivolto a se stesso.
- Sì… ma per un bel biscione, ci vuole un bel serpente!... –allusi disconoscendo le sue virtù, per farlo reagire.
- Ah, io posso!- iniziò tutto soddisfatto - ce l’ho 15 e mezzo… - scandendo con fierezza ogni sillaba di quel “mezzo” centimetro, per lui motivo d’orgoglio -…tu? -. Avevo già carpito l’informazione che volevo e non m’interessava proseguire oltre; non era dignitoso mettermi a fare con lui una questione di centimetri: - Non lo so…–
- Come non lo sai! – disse scandalizzato - Non te lo sei mai misurato? – come se misurarselo fosse una prescrizione medica; compresi per lui la questione centimetrica era di vitale importanza, forse per l’antagonismo che ci legava, allora potevo approfittarne per umiliarlo: - ma che ne so…sarà una ventina di centimetri! – gli risposi con non curanza.
- Venti! - mi fulminò con lo sguardo: - ma vaffanculo... – ah… che goduria, l’avevo colpito e affondato: lui pensava di vantare chissà quale primato e io invece con nonchalance l’avevo demolito in ogni velleità di competizione.
- Fanculo un corno! Se ce l’hai piccolo non è colpa mia... prenditela con te! >> gli inflissi l’ultimo colpo di grazia e mi levò la parola per il resto della giornata.
Il giorno seguente tornò alla carica, sempre in mezzo al mare: - questa mattina mi sono svegliato con le mutande appiccicaticce… -. Stava diventando noioso il ragazzino, ma forse potevo ancora umiliarlo: - ma allora vieni…? - gli dissi col tono sorpreso.
- Sì che vengo!- disse inacidito - è già da un anno almeno… e poi la cappella mi esce dalle mutande - ma che me frega… - Quanto ce l’hai? 15? – lo sfottei.
- 15 e mezzo… - rispose ancora acido -…e poi un mio amico di 14 anni che ce l’ha già 23! – a parte che mi sarebbe piaciuto vedere questo novello Siffredi, ma purtroppo per lui la cosa non mi interessava e inoltre la sapevo più lunga di lui: - beh, meglio per lui! Perché adesso o mai più… –
- Come adesso o mai più? – disse con un tono quietato; era ora di infierire.
- …che intanto non gli cresce più! A 14 quello… - indicai - non cresce più, cresce il resto ma quello ciccia… - fu come girargli un coltello nella carne viva: l’avevo bandito per sempre dall’olimpo dei venti… che bello essere cattivi.
Avevo vinto due round, ma quel ragazzino incassava e non demordeva, dopotutto era un degno avversario: il terzo giorno tornò ancora all’attacco, bisbigliando più volte: - Ah… che voglia di limonare…! – quel bastardello aveva carpito la mia tecnica.
- Che hai? – volevo vedere dove sarebbe andato
- Ho voglia di limonare… ma non ho qui la mia ragazza… -
- E’ bella? - Gli detti corda, e lui mi raccontò che ci faceva: seghe, sesso, sesso orale, sesso anale, insomma di tutto… e poi non solo da soli, ma pure in mezzo agli altri, al suo gruppo, dove lui, ovviamente, lui era il capo, e lei non era l’unica per giunta. Il suo allargarsi a macchia d’olio, però, mi fece comprendere che quel cretinetti non aveva compreso il sarcasmo del mio tono e che quindi mi raccontava tutte quelle balle, convinto ch’io mi bevessi tutto quello che lui mi diceva; ero nero,:l’avrei affogato in mare, ma per non dargli ulteriore soddisfazione, anche perché affrontarlo avrebbe significato essere gelosi della sua supposta posizione, ingurgitai il rospo amaro e incassai l’uno a due, comunque per me.
Arrivò l’ultimo dì, e mentre tutti si preparavano per il rientro vacanziero, io mi preparavo mentalmente per quella settimana di noia che mi attendeva, che da sola sembrava dover durare più dell’intera estate; a pranzo, però, mio padre mi stupì, domandandomi se non mi pesasse un’intera settimana da solo, pensai che finalmente dietro quella domanda ci fosse la proposta di tornare a casa, ma niente… invece fu contento d’avvisarmi, solo in ultimo, che per tutto il periodo avremmo avuto un ospite inatteso: Robertino.
I nostri padri erano divenuti ormai buoni conoscenti e siccome il suo non poteva assolutamente dilungarsi oltre per questioni di lavoro, dopotutto per quell’impiastro di figlio non ne valeva la pena, chiese a mio padre se non potevamo ospitarlo noi nella nostra casetta in affitto; scaricandoci di fatto la patata bollente, con la classica storiella del dottorino che prescrive il mare come terapia al ragazzo… che strano! Come al solito l’abnegazione di mio padre nell’accogliere le richieste altrui fu proverbiale, tanto che non solo accettò l’ospite, ma, siccome era di strada, s’offerse pure di riaccompagnarlo a casa, sollevando di fatto suo padre pure dall’incomodo di venirselo a riprendere.
Era felice lui nel darmi la notizia: secondo lui, io e Robertino eravamo “amici”, anzi “amicissimi”, quasi fratelli, lo fu molto meno però quando seppe la verità: cioè, che io e Roberto non eravamo affatto amici, ma che anzi ci sopportavo a malapena; però lui aveva già dato la sua parola – appunto la sua, non la mia -, e poi qualsivoglia mai sacrificio avrebbe potuto essere per me la sua presenza, in fondo era soltanto un ragazzino, e io essendo più grande invece dovevo capire… insomma neanche fosse stato mio fratello minore, me l’avrebbero cacciato così tanto in quel posto! Quando si dice l’incomunicabilità…!
La frittata era fatta, e io, volente o nolente, dovevo accettarla, l’unica cosa è che avrei dovuto cercare di cavare qualcosa di buono da quella sciagurata situazione, che in fondo c’era: ora io ero il suo capo indiscusso e quando mio padre non c’era, sapevo soltanto io a quali angherie l’avrei finalmente sottoposto prendermi quelle agogniate rivincite; e poi, visto che nel bilocale avremmo dormito io e lui nell’unico letto presente nel salottino, quella sua maniglia avrebbe finalmente svelato i sui segreti, e poi, chissà, magari per sfregio ci sarebbe potuta scappare pure una toccatina.
Quella sera i suoi genitori c’invitarono a cena nel ristorante di pesce più in della città, per ringraziarci dell’ospitalità mostrata, dopotutto una ricompensa ci voleva! Per tutta la cena fui un trionfo d’ipocrisia, sorridendo a suo padre, come se m’avesse fatto il regalo più bello del mondo; i suoi non erano antipatici, anzi sembravano brava gente, peccato solo che avessero procreato un essere indegno di stare al mondo e che ci dipingessero come due amici di lunga data. Quante cose non sanno, delle volte, i genitori dei figli, e quanti guai combinano nella presunzione di conoscerli.
Da come ce l’avevano inizialmente sbolognato, pensai che i suoi volessero liberarsi lui per passarsi finalmente una settimana in santa pace, dopotutto era una cosa comprensibile, ma da come se lo vezzeggiavano, da come se lo collocavano, capii ben presto che mi sbagliavo; Roberto era il loro piccolo gioiellino. Ricordo ancora gli occhi lucidi di mio padre nel guardare quella famigliola dirimpettaia profondersi in amorevoli coccole, mentre lui con finta ritrosia le rifiutava per non sfigurare di fronte alla mia vista; mio padre li invidiava avrebbe voluto anche per noi quell’idillio famigliare, ma era ora che capisse che ero ancora suo figlio, ma non più il suo bambino; e più i suoi genitori continuavano a fargli invidiare quella situazione, più peggioravano la sua situazione della loro joie de vivre, come diceva la madre corsa, perché non doveva preoccuparsi, visto che la demolizione psichica del loro pargoletto sarebbe stata la mia raison d’être della settimana!
Dopo cena, uscii con Roberto nell’intento precipuo di fargli capire il tenore della sua settimana; gli svelai i segreti: di quanto ci stesse sul cazzo, di tutte le volte che gli avevamo mentito negli anni per liberarci di lui, quanti sassolini mi levai dalle scarpe… fino a portarlo sull’orlo d’una ignominiosa crisi di pianto; mi sentivo bene, mi sentivo grande, l’apoteosi sarebbe stata vederlo frignare come il marmocchio qual era. Ma pur di non darmi soddisfazione incomincio a gnolarsi, a dirmi di come si sentiva, ma io non l’ascoltavo: cogitavo, meditavo, il resto delle angherie cui sottoporlo durante la settimana e pure durante quella stessa nottata; e così decisi che l’avrei umiliato, laddove si sentiva più caro: nella sua maniglia, forse con un confronto diretto e forse anche con una toccatina in segno di disprezzo!
Rincasammo alla mezza, come voluto dal dispaccio paterno. Mio padre dormiva e per non svegliarlo ordinai a Roberto di cambiarsi al buio facendo il minor rumore possibile. Roberto aveva fiutato ch’oltre quella porta sostava il mio regno e che il varco ne avrebbe sancito il degrado da libero ragazzo a mio umile servo, ragion per cui mi doveva ubbidienza suprema; difatti tornai dal bagno che indossava già il suo celestino completo da notte di due taglie almeno più grande di lui: calzoni sopra le ginocchia, maglietta cadente sulle spalle e calzini corti d’ordinanza. Era così buffo in quella mise, da sembrare un bambino privo del suo orsacchiotto! Tentai di leggerne l’etichetta nella fioca luce della notte, ma cordialmente me la sottrasse scomparendo nel buio della stanza recandosi alla toilette; sorvolai su quel grave atto d’irriverenza in fondo l’avrebbe pagata. Quando riemerse dall’ombra, terminai d’arrangiare qualcosa che rassomigliasse il più possibile ad un letto; finalmente potevo imporgli il mio imperio, forte della mia duplice autorità (padrone di casa e maggiore d’età), assegnandogli il lato destro del divano: quello più lontano dall’unica finestra della stanza; la parte più fresca spettava a me. Non capivo come, con quel caldo, potesse dormire così infagottato, forse per lui l’idea d’un contatto maschile nell’intimo d’un letto era un tabù inviolabile, ma non per me, che già gli avevo concesso troppo infilandomi per creanza i calzoni del pigiama, data la promiscuità del giaciglio; e se quella sua smorfia di disappunto era dovuta alla mia ignudità superiore, affari suoi… non avrei stravolto le mie abitudini per lui.
La stanchezza aleggiava suadente inducendomi tra le alettanti braccia di Morfeo e avrei anche potuto concedermi, se un pigro e molle appisolarsi mal si conciliava cogli impudichi intenti della nottata e la sua querula presenza: neanch’ebbi modo di coricarmi che Roberto cominciò a lamentarsi per la calura della sua parte di stanza.
- La vedi la finestra? C’è ne una sola … e visto che l’ospite sei tu, qui ci dormo io! Se ti va bene è così… se no è lo stesso! - risposi rammentandogli il suo stato di sudditanza. Mi guardò bieco, come volendo trucidarmi attraverso lo sguardo, ma conscio del suo stato prigioniero soggiunse mestamente - Visto che anche tu dormi senza, possono togliermi la maglietta…?! - Che tenero… “la maglietta” disse col vocino innocente, ma il tono tradì l’irritazione provata, dandomi sprono per oltraggiarlo oltremodo: - Guarda, puoi fare quel che vuoi, non me ne frega niente di te!! Basta solo che non ti spari le seghe nel letto, poi, per quel che mi riguarda, puoi anche buttarti dalla finestra! -, quell’inciso era inutile, ma speravo valesse da imbocco per suo animo dispettoso; con apparente calma si spogliò della giacca e prese a dormire, ma sapevo che dietro quell’indifferenza il suo moccioso interiore stava covando ripicca.
Un colpo al fianco: - Oh! Alle… -, - Va a cagare! -, - Alle guarda! -, un’alta montagnola di lenzuola s’alzava dal suo pube; - Adesso m’incazzo!…- esclamai cattivo - …metti via quell’affarino e lasciami dormire! - indi mi voltai. Sapevo che sminuendogli “quell’affarino”, per lui motivo d’orgoglio, sarebbe trasalito; povero prevedibile ragazzino… quell’iniziale montagnola, prima statica, ora s’agitava come non mai nel buio della notte. Mi girai appena: il piccolo bastardo sghignazzava beffardamente stantufandosi il suo turgido ammennicolo; era ora di finirla! Con furia m’avventai su di lui, che d’istinto si voltò dalla parte opposta per sottrarsi al brandimento: un attimo, un sol vorticoso mulinello di lenzuola e le coperte finirono per avvilupparci indissolubilmente, io e lui avvinghiati in un intrico dedalo d’arti, stesi nel fremito di ghermire e difendere quel membro conteso. Lo sormontavo completamente, ero in fondo più alto, più grande e più forte di lui: non poteva ribellarsi. Lui era lì, sotto di me, rigido in posizione fetale, con le gambe contratte, le braccia al petto, il capo chino col volto coperto; aveva paura, e come dargli torto: la mia faccia ringhiosa a poco dalla sua, e la destra infilata tra l’inguine e le cosce a brandirgli l’uccello.
Provai qualcosa d’incredibile nello stringere quel brandello di carne così duro e compatto: non eguagliava le mie dimensioni, ma di spessore era poco meno, dando al tatto una certa soddisfazione; anche lui però era strano: non era affannato per la paura o lo spavento, ma quasi più per l’eccitazione. - …allora? - gli dissi stringendo; - Non lo faccio più! Non lo faccio più! – disse con vocina sottile; ma nessun predatore abbandona la preda sul più bello: anzi, m’appoggiai a lui con tutto me stesso, per fargli sentire contro la schiena la mia erezione e stringendo più forte quell’asta di pene gli dissi ringhiosamente - e questi sarebbero i tuoi 15 cm? -, e lui intimorito com’era annuì mestamente.
Immobili in quella posizione, col mite tepore dell’assenza di vesti, il buio acuì i miei sensi; sentivo l’inconscio godimento della mia stretta che crebbe la nostra mite intimità: iniziai a muovere la mano nell’angusto spazio che avevo, mentre lui mi concedeva maggior allentando le gambe.- …così vuoi farti le seghe a letto! Eh? -, ripresi provocatoriamente, ma, perso in quel migma d’ansia e piacere, non rispose, in bilico tra il godimento e la paura ad occhi serrati. Colpo dolo colpo l’avvertii rilassarsi: la sua positio fetalis decontrarsi, l’afflato disaffannarsi, giunto com’ero a fargli una vera e propria marletta. Lo percepivo indifeso: quasi una voglia di tenerezza mi prese, sentendo il bisogno io stesso di un contatto più fondo poggiando la mia nuca alla sua. Se prima m’incitava il suo terrore, ora la sua inermità placava il mio demone interiore; lo cinsi con tutto me stesso quasi a fargli scudo col mio corpo dal mondo esterno; l’avevo in grembo e percepivo i suoi tenui fremiti di piacere di lui che con le mani abbassava le vesti. Che strano, pensai, inizialmente volevo solo vederglielo, semmai toccarglielo in segno di spregio, ed ora lo stavo segando, e tutto ciò mi piaceva, anzi ci piaceva.
Venti minuti stetti a masturbarlo curante di non farlo venire, o le sue tracce spermatiche l’indomani avrebbero svelato la nostra improvvida attività; come per vezzo dolcemente odorai sulla nuca, quando una matta voglia di predominio m’assalì feroce, e d’improvviso quello stato di benessere, finora appagante, non era più sufficiente. Scosso da una folle bramosia l’afferrai alla verga: - Vorresti venire? - pronunciai arrotando quelle erre, come il frinìo d’una serpe a sonagli, a monito del suo tristo futuro. Non rispose, accennò solo un gesto d’assenso; - …allora volti! – gli intimai, ergendomi a cavalcioni sulla sua imbelle figura; l’afferrai alle spalle con ambo le mani e, addossandomi il suo placido peso, lo scaraventai supino al centro del letto scollandomi il lenzuolo di dosso. I bagliori dei lampioni stradali giungevano cuprei, filtrati dal tendaggio, a illuminar la scena: io sopra, sovrastando il suo inerme corpo, gettato là sotto come l’uomo di Vitruvio, ambedue a petto nudo, con quella fioca luce che trai chiaroscuri adombrava la sua acerba muscolatura.
Per non so qual senso del pudore, il suo tumido fallo era ora nascosto dietro quel cerulo drappo, or verticalmente sbalzato dalla sua conturbante forma; col groppo alla gola portai quei larghi calzoni alle caviglie, desioso di svelarne al più presto il bramato contenuto: era proprio come l’aveva descritto: la sua turgida cappella capolinava dall’elastico degli slip, col resto del malloppo ben celato sotto quel drappo adorno a lineette e pallini e poco più sotto le globulose rotondità dei suoi penduli testicoli. Solo a vederne quell’estremità superiore, cominciai a provare un’inusitata voglia di tenerlo in mano, cosa che fino ad allora mai ebbi provato, nemmen sospettato; con ghigno d’onnipotenza l’afferrai alle palle per sincerarne del contenuto e il palmo ne fu pieno: aveva un bel paio di coglioni il moccioso! Che sapida pienezza! D’un tratto il soffitto girò e in un delirio di veemenza mi fiondai su di lui sferrando un colpo sul guanciale. Roberto sbatté le palpebre; due grosse luci mi fissavano allibite; chissà cosa stesse pensando? Dovevo aver perso carica intimidatoria, non vedevo più spavento sul suo volto, ma soltanto quella tipica apprensione di chi attende un destino severo; in fondo lo capivo: nella sua piccola testolina, mi aveva fatto incazzare e io certo non gli avevo dato l’adito al dubbio col mio comportamento, ed ora si trovava lì, sotto di me, con io che gli ghermivo i maroni.
Smaniavo nell’attesa di scoprire quel tosto manganello: mi raccomodai sulle gambe e avvoltando l’elastico ne scoprii il primo pezzo d’asta; ma più ne svelavo e più cresceva in me la voglia d’averlo, fin che giunto a limite scivolai le sue mutande alle caviglie, coadiuvato da un sussulto del suo corpo a superarne l’incaglio del sedere; ma allora non era una vittima innocente…! La sua verga svettava diritta, bella nella penombra della notte, fungiforme in tutta la sua lunghezza: quei quindici centimetri c’erano tutti, il mezzo non so, ma non erano affatto pochi, specie se commisurati alla sua altezza: era davvero un bel cinno cazzuto! Ma ripresi ad umiliarlo, - …così, questi sarebbero i tuoi 15 centimetri e mezzo! -, calcando con disprezzo su quel mezzo centimetro. Prima che potesse ribeccare l’afferrai a mo’ d’elsa di spada, intimandogli silenzio. Ripresi a massaggiare quel tumido fallo; non ci credevo, invece d’opporsi, soggiaceva quietamente alle mie manipolazioni. Tutta quell’insolita disponibilità gratificò il mio trepido ego: massaggiavo, masturbavo or questo or quelli, passandolo tra le mani, a volte soffermandomi a rimirar la scena, per poi riprendere ad accarezzarlo sui gemelli o sul pubico vello; doveva gradire particolarmente il mio operato, poiché, scappellicchiandoglielo, lievi goccioline d’umor trasparente scorrevano sotto il prepuzio retratto; si stava rieccitando come e più di prima, non avevo dubbi, se avessi continuato a breve avrebbe schizzato il suo fluido latteo, innaffiando entrambi e l’intero letto.
Dopo tutto quell’attendere, dopo quell’intermittente lambire l’orgasmo, senz’altro agognava più d’ogni altro sprofondarsi nel sublime piacere; ma io l’avrei ancora stuzzicato sadicamente, finché, satollo di libido e privo d’ogni orgoglio, non m’avesse supplicato, per poi negargli quest’ultimo atto in estremo gesto di disprezzo… ma perché farlo? In fondo volevo scalfire il sub-limite oggettivo del proibito: veder come godeva, compiacermi delle sue smorfie di piacere, procurare un’eiaculatio non mia; e poi il suo seme… chissà che sapore avrebbe avuto il suo indomito umore, quella gocciolina segretamente portata alla lingua. Gustavo quel pene tumescente sentendomelo fin già dentro la gola, la turgidità, la fragranza, quel senso di pienezza; la mia mente vagava in un delirio d’onnipotenza; però non potevo mostrargli quel lato, quella debolezza: che lui m’intrigava, …fargli intendere che bramavo il suo sesso! Era questione di primato, di prestigio, … non potevo essere io il primo in quella stanza a succhiare un uccello! Che figura ci avrei fatto? Avrebbe pensato che fossi… che fossi…! Ma come osava! come poteva anche solo lontanamente immaginarlo, me l’avrebbe pagata! Perché anche il libero pensiero ha un prezzo, e questo presto l’avrebbe appreso.
Avanzai con le ginocchia sin sotto le sue spalle: il mio pene a pochi centimetri dalla sua faccia. Roberto fissò perplesso il mio bozzo; il suo volto si fece un question mark: - Chiudi gli occhi! -, gli ordinai. Poggiai la punta sulle sue labbra: - …e ora succhia! - dissi; senz’alcuna renitenza schiuse la bocca e vi scivolò l’intera cappella; non provai granché la prima volta: il glande ancora coperto, ma in fondo non m’interessava, l’importante era rimarcare l’autorità. Non aveva esperienza, ma succhiava d’impegno: era così appassionato che quando lo guardai la seconda volta n’ebbe infilato quasi mezz’asta, ma allora gli piaceva…! E con la stessa goduria cui si leva a un infante il ninnolo preferito, gli sfilai il pisello di bocca; ma ancora, prima di farlo godere, dovevo togliermi un ultimo sasso: quello per la storiella della sua fantaragazza. - Allora chi ti fa meglio le seghe? - dissi strizzandogli l’uccello - io o la tua ragazza? Eh!- , - Tu! Tu! – solo dopo capii la cazzata di quella domanda, ma continua aggiustando il tiro perché non s’accorgesse dello sbaglio -…E chi sbocchina meglio l’uccello? – strizzai - Chi fa meglio i pompini tu o la tua ragazza?... allora! -, - io! Io!... - Bingo! Dopo quell’ammissione poteva solo conciliare - Non hai mai scopato! Vero?– No! - - …e non hai neppure la ragazza… è tutta una balla! Vero? - Sì, è vero! È tutta una balla! -. Dopo quell’estorta confessione mi sentivo finalmente meglio, non ce l’avevo più con lui, anche se a discapito del suo povero fallo. Soddisfatto mi avvicinai per rincuorarlo del fatto che ora sarebbe potuto venire, ma che non doveva fare rumore se ci teneva alla sua virilità.
In quel frammezzo di vendetta il suo turgore era scemato, ma tornato in posizione pochi colpi di mano bastarono per farlo rinvenire all’antico vigore. Ben presto riavvertii il suo anelito nell’attesa dello spasmo finale, la tensione muscolare dei muscoli femorali sotto il mio sedere; era pronto! Già timide gocce scintillavano nella notte, in quella frazione dovetti decidere se andare avanti o lasciarlo riverso nel letto desnudo con quell’orgasmo mancato. Quasi inconsciamente la mia mano scivolò schiudendone il prepuzio: la pellicina scorse sottile sull’umida cappella, esaltandone la forma fungina nella penombra della notte, ebbi come l’impressione di trovarmi di frante a qualcosa di grandioso; tentennai più volte dinnanzi a quella lucida cappella accarezzandola in punta di dita, cercando un assenso nei suoi occhi prima di violare la reciproca castità, ma erano chiusi.. Se avessi seguito mio istinto naturale, mi sarei fiondato su quel sesso inghiottendone il più possibile a fauci spalancate, ma il timore di un suo giudizio mi bloccava; finche non vidi sul suo volto l’espressione di chi godeva, di chi avrebbe certamente voluto che compissi anche l’ultimo passo: poggiai le mie labbra su quella pingue cappella ardente come brace, e poi tutto mi venne naturale.
La mia bocca scontava già tutta l’esperienza necessaria; sentii Roberto trattenne il respiro, forse non credeva che l’avrei fatto, nemmeno io; la liscità incredibile di quella turgida cappella m’inebriava: presi subito confidenza con quell’ospite inconsueto, come fosse un’enorme ciuccio infantile; a ogni tocco di lingua ne apprendevo l’aroma, e i suoi mugolii levarsi flebili con quel filo di voce, mi confortavano incredibilmente. Non avrei mai immaginato di trovarmi così a mio agio con un pene in bocca, il suo per giunta, ora mi sembrava la cosa più naturale del mondo, non era affatto una cosa sconveniente tenere in bocca il pene di un altro ragazzo, sarei stato ore, forse notti, a succhiarglielo, con quell’aroma inebriante che mi dava la carica. Oramai mi sentivo con lui in unicum sensoriale: più forte succhiavo, più forte lui godeva e più cresceva la mia voglia di succhiarlo ancora. Non sapevo come sarebbe stato il gusto del seme, ma in quel momento l’idea di bere il suo succo acerbo mi garbava; … due, tre colpi di lingua ancora e la mia gola s’inondò del suo fluido liquoroso, non era buono, ma non sarebbe stato corretto neanche definirlo disgustoso, mi abituai subito a quell’aroma pieno, quasi salato.
Ormai era completamente venuto, sentivo che non ne aveva più e la bocca era piena, ma non riuscivo ugualmente a lasciarlo, mi piaceva troppo tenerlo in bocca, il sapore mi eccitava e quel misto di seme e saliva m’incatenava alla speranza di riceverne in premio ancora un po’; poi lo sentii ancora godere: s’agitava tuttora ad ogni passaggio di lingua, il corpo si percuoteva in infiniti spasmi di piacere, l’irrefrenabile frenesia di godimento tramutava i suoi gemiti in irreprimibili versetti di letizia. Fin quando le sue reazioni non si affievolirono anch’esse; lo sfilai di malavoglia mirandolo compiaciuto: quel membro vigoroso stava già perdendo rigidezza, pur mantenendosi tonico; lo ripulii con la lingua dagli ultimi residui di piacere, dandogli ancora qualche senso di godimento.
Mi sentivo soddisfatto, come liberato, mi faceva tenerezza ora osservare il volto di Robertino ancora pervaso dalla beatitudine dell’orgasmo; lo sentivo vicino, come più mio, ora che parte di lui era dentro di me. Mi distesi al suo fianco sussurrandogli di rilassarsi, non volevo rovinare il suo stato di quiete per l’incomodo della vestizione: ricomposi io stesso le sue vesti e ci ricoprii con le lenzuola.
L’ora era tarda e una lieve brezza entrava nella stanza, di quelle che col suo torpore conciliano il sonno e aggradano il tepore di un tenero abbraccio; non mi andava di chiuderla, e in vena d’affettuosità abbracciai Roberto in cerca di quel calore che ci necessitava. In quell’istante, in quel tenero abbraccio, il suo morbido corpicino mi diede un’incredibile emozione di calma e piacere.